Lo Schiaffeggiatore Italiano

In un afoso pomeriggio di agosto, il mio cellulare ha squillato. Sul display, il nome di mio marito. Chiamava dalla Francia, dove era in vacanza con i bambini mentre io ero rimasta a Roma a lavorare. Ho risposto.

“Non sono stato io. – ha detto la voce dall’altro capo – Giuro di no. Sono ancora qui in Francia con i bambini e non li ho sfiorati nemmeno con un dito, anche se mi stanno facendo diventare matto!” Poi è scoppiato a ridere.

“Di che diavolo parli?” ho borbottato.

“Non hai visto???!!!???? Un papà italiano è stato arrestato in Svezia per aver dato uno schiaffo a suo figlio.”

Era vero. Un cittadino italiano di nome Giovanne Colasante, in vacanza con la famiglia in Svezia, aveva dato uno schiaffo al figlio di 12 anni perché non voleva entrare in un ristorante. Poco dopo Giovanni era seduto a tavola, è arrivata la polizia svedese e lo ha arrestato. In Svezia, la violenza fisica sui minori è reato. L’italiano ha passato tre giorni in prigione e ha dovuto pagare un multa salata (circa 800 euro). E’ stato poi consegnato all’ambasciata italiana a Stoccolma, dove è stato obbligato a restare fino all’udienza.

Gli italiani erano scioccati. Uno schiaffo a un bambino impertinente è considerato una pratica accettabile. Ci sono state dimostrazioni di pubblico sdegno in tutto il Paese per il maltrattamento del padre italiano da parte delle autorità svedesi.

Quella sera al telegiornale hanno trasmesso alcune interviste a genitori italiani:

“Ogni tanto uno schiaffone gli fa bene” – “Uno schiaffetto, se è necessario, fa sempre bene.” …

Naturalmente io ero dalla parte degli svedesi e il motivo per cui mio marito mi ha chiamato è che questa è stata una delle lunghe controversie del nostro matrimonio.

Anche prima che Gustavo e io avessimo dei figli, avevamo avuto discussioni al riguardo, come del resto altre coppie italo-americane che conosco. La mia amica Jessica mi ha raccontato che da ragazzo, suo marito Massimo ricevette una brutta pagella. Quando tornò a casa, suo padre era al telefono. Massimo gli porse disinvoltamente la pagella. Il padre la scorse mentre continuava a parlare al telefono e poi gli diede uno schiaffo.  Nessuna indulgenza paterna del tipo “figliolo, parliamo dei tuoi voti.” Solo un sonoro schiaffo in faccia, e l’adolescente colse il messaggio.

Dissi a Gustavo che se avesse mai osato dare uno schiaffo in faccia ai nostri figli, lo avrei lasciato immediatamente. Erano permesse solo le sculacciate. Gli italiani NON sono grandi seguaci della teoria del Time Out.

La brutta storia dello schiaffeggiatore italiano in Svezia non è la prima a provocare contese diplomatiche sul trattamento dei bambini nelle diverse culture. Nel 1997 abitavo a New York e ricordo che una danese di nome Anette Sorenson venne arrestata per aver lasciato il passeggino con la sua bambina di 14 mesi sul marciapiedi fuori da un ristorante, mentre lei mangiava all’interno. La figlia venne data in affidamento per tre giorni. La mamma dichiarò scioccata che teneva d’occhio la bambina e che in Scandinavia era normale lasciare i bambini all’esterno. Ovviamente Anette Sorenson non si rendeva conto che le strade di New York non erano sicure come quelle danesi. Nello stesso periodo, a mio figlio Nico – che allora aveva due anni – era preso il capriccio di non voler indossare il cappotto, nemmeno in mezzo a una bufera di neve. (Devo dire che adesso che ne ha 16, lui e i suoi compagni di squadra di pallanuoto escono dagli spogliatoi con i capelli bagnati, maglietta a mezze maniche e giacche sbottonate. Pare che avere freddo faccia molto fico.) Una mamma mi consigliò di farlo uscire al freddo e al gelo senza cappotto, convinta che dopo qualche passo mi avrebbe implorata di metterglielo. Non conosceva il mio Nico. Comunque ci provai, su Claremont Avenue spirava un vento gelido che trasportava piccoli fiocchi di neve. Facemmo duecento metri con lui che tremava dal freddo, gli chiesi se voleva il cappotto, rispose “NO!” come solo un bambino di due anni sa fare. Così decisi di farglielo indossare a forza. Lui si gettò a terra scalciando e urlando, io mi chinai su di lui per infilargli il braccino nella manica. Nel bel mezzo di questa lotta, una voce severa dietro di me: “Va tutto bene qui, signora?” Alzai la testa e vidi un grosso poliziotto newyorkese che mi squadrava. La sua auto era ferma in doppia fila con i lampeggianti. Nico smise di frignare, affascinato. Approfittai di quell’attimo, presi l’altro braccio di Nico, lo infilai nella manica, mi inginocchiai a terra e chiusi la zip. Poi, con un grande sorriso, mi alzai e dissi al poliziotto: “Scusi, stavo solo cercando di mettere il cappotto a mio figlio.” “Oh, capisco”, disse, ma in realtà non capiva affatto. Comunque non mi arrestò. Perciò il mio consiglio al pugliese Giovanni Colasante è che la prossima volta che sarà in Svezia e suo figlio adolescente farà il rompiscatole, non occorrerà disturbarsi a dargli uno schiaffo, basterà lasciarlo per strada e sarà tutto ok!

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