Non e’ Niente

Mia Madre, Barbara Thomas, con mia sorella Gwen ed io a la Batrasi Resthouse nel Pakistan nei anni 1960.

Nota per i lettori del blog: ho appena finito di leggere il bel libro di Alexandra Fuller “Cocktail Hour Under the Tree of Forgetfulness” che mi ha ispirato a scrivere qualche pagina sulle mie esperienze in Africa e Asia, nonché sulla mia incredibile madre. Sia “Cocktail Hour…” che il primo libero di Alexandra “Don’t Let’s Go to the Dogs Tonight”, sono scritti benissimo. Vale la pena di leggere anche un’altra esperienza d’infanzia in Africa, in Liberia, quella raccontata in “The House at Sugar Beach: In Search of a Lost African Childhood” da Helene Cooper, corrispondente del New York Times dalla Casa Bianca.

Io invece ho diviso i miei brevi resoconti in tre parti. Questa è la prima.

Parte I – “Non è niente”

Essere madre in Italia si è dimostrata un’esperienza totalmente diversa dall’esempio avuto da una madre americana. Come ho accennato in post precedenti (vedi Febbre), una mamma italiana ha il dovere di preoccuparsi costantemente per tutta la vita della salute dei propri figli. Mia madre aveva un approccio completamente diverso. Una volta mi ha detto: “I migliori pediatri sono quelli che ti dicono che tuo figlio non ha niente.” E questo era l’atteggiamento che aveva verso la maggior parte dei nostri malanni. Ginocchia sbucciate, sangue dal naso, punti, ossa rotte… la risposta era quasi sempre: “Non è niente.”

Mia madre applicava la sua filosofia anche a se stessa. Quando viveva a Dhaka, in Bangladesh (all’epoca Pakistan orientale), rimase incinta di mia sorella maggiore Gwen. Si profilava un parto podalico e in gran parte del mondo, si sarebbe proceduto a un cesareo. Mia madre riferì che una brava ostetrica-suora all’Ospedale della Sacra Famiglia di Dhaka le aveva detto: “Non ti preoccupare, girerò io la bambina. Andrà tutto bene.” E così fu.

Nella foto qui sopra, vedete mia madre in splendida forma che tiene Gwen per mano, mentre io mi nascondo dietro di lei. C’è un’annotazione sul retro della foto: “Batrasi Resthouse, Pakistan orientale, tra Abbottabad e Kaghan.” Sotto, tra parentesi: P ha avuto il mal d’auto. P sono io, Patricia, e… beh, se volete la mia versione della storia, ci stavamo inerpicando su una strada pericolosa piena di tornanti e io ero seduta sul sedile posteriore della Land Rover. Cominciai a sentirmi male e ripetevo a intervalli regolari: “Mamma, non mi sento bene.” Credo che lei avesse risposto: “Guarda avanti, fragolina, e andrà tutto bene.” Però era impossibile guardare avanti perché avevo cinque anni e il sedile anteriore mi bloccava la vista, e in ogni caso, la strada era così erta e tortuosa che non avrei avuto una gran visuale. A un certo punto annunciai che stavo per vomitare, l’autista frenò a secco, mio padre saltò giù dall’auto, aprì il mio sportello e io feci appena in tempo a vomitare sul ciglio della strada. Questo piccolo inconveniente rese necessaria una sosta alla Batrasi Resthouse per un tè. Non avevo niente, ma era solo l’inizio.

(A mia madre piace chiamarli i miei ‘resoconti di abusi su minori’)

Domani: La mini-melanzana viola e la mancata opportunità di diventare principessa

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